21 Ott Muróoṡ e Spóoṡ
Gli amori, il sesso, il matrimonio, la famiglia, ecc sono stati costantemente elementi di fondamentale importanza nella vita delle persone e anche nelle nostre zone, sia in città o in campagna, le parole, i modi di dire e le frasi sono sempre state molto abbondanti su queste tematiche. Molte delle cose che riporteremo vanno riferite ai tempi dei nostri nonni: il ’68 e vari aspetti della nostra attuale società hanno fatto cambiare profondamente gli usi e la morale; infatti incóo sèmmper più de spèss a s va a viiver a… clòmmb (oggi si va a vivere sempre più spesso insieme come i colombi, che non … sono sposati ufficialmente). E’ bello però fare un salto all’indietro nel tempo e mostrare una carrellata generale sui rapporti di parentela e sugli usi riguardanti l’amore, il fidanzamento, matrimonio, ecc..
Se vi piaceva una ragazza e volevate corteggiarla, niente di meglio che farle una inserenèeda sotto la finestra, per farle capire i vostri sentimenti con qualcosa di più concreto degli sguardi furtivi, dei saluti fuggenti o delle chiacchiere in sala da ballo. I più fortunati avevano uno o più amici musicisti, che dietro compenso di un scalfaròot èd lambrùssch (un bicchiere di lambrusco) o anche a graatis (= gratis) si prestavano alla romantica operazione, suonando un vaalser, ’na puulcra (polka), o una maṡuurcra (mazurca). L’accompagnamento veniva eseguito con un mandṡètt (fisarmonica) e magari anche con un viulèin (violino).
Qui trova anche spiegazione la frase insachèer al viulèin (insaccare, riporre nella apposita custodia, il violino), nel senso che una certa cosa è finita senza nessun successo e si torna a casa senza che (in questo caso) l’amata abbia dato segni di approvazione, o quanto meno incoraggianti, dalla finestra.
Lo scrittore carpigiano Nereo Lugli, che di dialetto ne sapeva parecchio, e ci rifletteva anche sopra, usava anche l’espressione dèer un cagnìin per indicare il rifiuto di una ragazza alle timide, prime profferte di un giovanotto. Un modo di dire legato in qualche modo al verbo cagnèer, rimproverare.
Chi non aveva amici musicisti, ma un po’ di disponibilità economica, poteva affittare un musicante od un’orchestrina.
Quando si andava a chiedere il consenso per la mano della sposa, si poteva dire: andèer a tóor la cuntèinta.
Racconta il dr Carlo Contini, insigne conoscitore e ricercatore della nostra cultura locale, che…
Quàand in campaagna un ragàas l éera madùur pèr tóor muiéera, l andéeva davaanti a la céeṡa a la basóora (sòttsiira – sottosera).
La ragaasa la giìiva fóora tutta cuntriida, ch la pariiva ’na Madalèina pintiida. I òoc’ in tèera cóome ’na vèddva èd guèera.
Ma se dava una rapida e timida occhiata, il pretendente poteva ritenersi autorizzato a cumpagnèer la a ca … stando ad almeno cento metri di distanza e sèinsa ciacarèer, sèinsa diir gnaanch ’na paròola. E pò al turnèeva in piàasa e al giiva con soddisfazione: “A l’ò cumpagnèeda!”
Se le intenzioni erano ricambiate, partiva la singolare procedura di duu dmandòun (dei due “domandoni” – parola e definizione stupenda, frutto della usuale ironia da sempre presente nelle nostre zone). Costoro erano due persone di fiducia o conosciute da entrambe le famiglie. I éeren di èmm da paréer, riconosciuti saggi, equilibrati e con doti di diplomazia. I duu dmandòun (così come ci indica il nome stesso) andavano prima da una e poi dall’altra famiglia a fare domande, ad ascoltare, a interrogare e a trasmettere le informazioni ricevute sulle qualità dei due giovani: capacità, cultura, abilità manuali, ecc. Per quanto miseri, ci si metteva d’accordo anche sugli aspetti economici come dote e mobilia. L’opera dei due compari continuava fino al raggiungimento di un accordo condiviso e reciprocamente conveniente per le due famiglie.
Quàand i dmandòun i andèeven a ca èd lò (lui), i dgiiven: “L’è ‘na brèeva ragaasa. La gh à ’na bòuna dòota; la n descòor mìa. La sà … fèer da magnèer, tgniir adrée ai ragasóo e a la ca. La sà tachèer al pèesi (le pezze) ind i paagn èd tutta la famìa …”
Invéece quàand i andèeven a ca d lée (lei), i cuntèeven: “L è un brèev ragàas ch al lavóora! Al sà d lèttra, perché al cumpaagna sò pèeder al merchèe tutt i lunedè a Mòodna.” (cioè accompagnava il padre al mercato del lunedì a Modena!).
Molto simpatica e di gran bellezza è questa mini filastrocca che mi ha segnalato la poetessa carpigiana Luisa Pivetti:
“Ruṡaalba, Ruṡalbòun, viin a ca ch a gh è al dmandòun!”
Rosalba è la lieve e leggiadra “contadinella” che viene chiamata dal lavoro, perché a casa è arrivato al dmandòun, il sensale che, per conto del futuro marito, la viene a chiedere in sposa.
Io me l’immagino come una ragazza alta e pienotta, dal fare bonario, mò un pòo tirèeda vìa, anche se desiderosa di farsi una famiglia e di diventare reṡdóora.
La garbata risposta di Rosalba, che stava lavorando nei campi, alla madre che le ha lanciato il messaggio, fu:
“ A suun chè ind al caradòun,
ch a m lèev i ṡgarletòun,
ch l è trii méeṡ ch i n vèdden aaqua!”
Esiste anche un’altra variante; ma qui Ruṡalbòun diventava la Ṡmingaarda è la risposta alla chiamata era la seguente:
A suun chè ind la fusètta,
ch a m lèev la ṡgarlincètta,
ch a srà treintasée aan ch a n mi suun lavèeda!
Ho chiesto per scherzo a una mia amica putta s i n l iiven màai dmandèeda cun i dmandòun.
Lei simpaticamente mi ha risposto: “No! Mò a gniiva al mè ragàas e al sunèeva al campanèin dla biciclètta. Peccato!”
In ogni modo … ottenuto il consenso della fanciulla e spesso anche della sua famiglia, (se l’ambiente sociale era molto rigoroso e all’antica), si comincia il fidanzamento. I due ragazzi diventano muróoṡ (amorosi); si ha ragione di ritenere (salvo possibili smentite) che le parole fidanzato o fidanzata non esistano in carpigiano, mentre si trova fidansamèint (fidanzamento). Essere fidanzati si dice quindi andèer a muróoṡ (andare a moroso), modo di dire usato solo dai maschi, mentre per le femmine è avéer al muróoṡ o anche fèer l’amóor (fare l’amore), valido per entrambi, che in questo frangente non ha sottintesi sessuali o negativi.
Molto significativa, sempre con lo stesso senso, ma con una venatura meno ufficiale, in attesa dell’assenso delle famiglie, era anche una frase del tipo: i s ciaaaren (o descòrren) da sée méeṡ (si parlano da sei mesi). La frequentazione aveva un calendario preciso: le serate da morosi sono il martedì, il giovedì, il sabato e la domenica.
Visto che certe cose prima del matrimonio non si potevano o dovevano fare, l’unico modo per i due piccioncini di vedersi era in pubblico e sempre in compagnia di terzi. Quindi o lui andava a casa di lei, o uscivano in tre, in compagnia della vèecia (vecchia) o talora d un fradlèin più cicch (di un fratellino più piccolo), però facilmente corruttibile con gelati o caramelle. La vèecia era o la nonna di lei, o la zia, o a volte anche la mamma o una sorella maggiore, che accompagna i due morosi a ballare o a passeggiare alla domenica pomeriggio.
All’inizio del ‘900 i modi di incontrarsi non erano tanti come ai giorni nostri; le principali occasioni di contatto tra i due sessi erano in chiesa, nelle sagre e nelle feste, a passeggio, a ballare. Le ragazze potevano andare a ballare sole o in compagnia di amiche, ma sempre accompagnate dalla vèecia, che si metteva in disparte e controllava da lontano la sua protetta e i ragazzi che le chiedevano un baal (un ballo).
E’ ben ricordare che la vèecia, aveva funzione di gendarme e accompagnava la di lei protetta al ballo o a qualche festa occasionale, o ne assisteva in silenzio il bisbigliare morosesco nel salotto buono della casa.
Nel concreto però la vecchia non era sempre terribile, anzi il controllo sui fidanzati era spesso benevolo e comprensivo; infatti è interessante a tale riguardo il detto fèer la vèecia (fare la vecchia) che significa, anche in italiano, fare finta di niente. Questo forse perché l’anziana donna ricordava a sua volta i suoi tempi e i giovanili ardori a situazione capovolta, quando la controllata era lei. Così quando i due fidanzati arrivavano a effusioni un po’ troppo spinte, la vecchia, appunto la fèeva la vèecia, fingendo di non vedere.
Altri significati utili a sapersi:
Fèer la vèecia significa anche abbagliare qualcuno riflettendogli negli occhi la luce del sole con una superficie riflettente, ad esempio uno specchietto, un vetro.
Fares ‘na vèecia nella Bassa significa buttare giù tutto in colpo in un sol fiato un bicchiere di vino bianco.
Va là vèecia ch a t guss ! … significa invece stancamente adempiere ai doveri coniugali di una coppia già avanti negli anni, dove il piacere purtroppo molto volte non supera la fatica.
Per ingannare il tedio delle ore di quella consegna presso la sala da ballo e ripensando i suoi bei tempi andati, la vèecia era solita occupare proficuamente quelle ore nel fare dla trèssa da trii o al calsètt, a seconda delle proprie abilità manuali, unendo così a una funzione familiare, un piccolo guadagno, un misero compenso, per il tempo speso nel mettere il naso in un amore e in ciò che non più la riguardava.
La presenza della vèecia era però in sé contemporaneamente imbarazzante e comica, così spesso alla fine di un ballabile, l’orchestrina la prendeva in giro, dando la chiusa del pezzo musicale con un bel “Maasa la vèecia còl flitt!” (Uccidi la vecchia con l’insetticida) e poi qualcuno aggiungeva “ e se non basta col gas!”.
Si giocava anche sul fatto che in alcune parti delle nostre zone lo scarafaggio (a Carpi panaraasa) viene appunto chiamato vèecia.
Ecco su questo tema una testimonianza di Erminio Ascari: egli racconta con piacere delle “festine” domestiche che facevamo dal 1957 al 1961. In quelle occasioni promiscue, la vèecia era quasi sempre presente, però, anche se i ragazzi e le ragazze stavamo molto attenti, lei si comportava in modo molto saggio e discreto. Questo atteggiamento avveduto però si era capito solo dopo un po’ … con l’esperienza.
Nel gruppo dei ragazzi c’era sempre quello che metteva su i dischi, che cambiava la puntina del giradischi; gli apparecchi di allora non erano stereo ed ogni tanto bisognava sostituirla. Lo stesso personaggio aveva poi anche il compito d’abbassare o alzare le luci a seconda della posizione della vèecia in un certo momento.
L’operatore delle luci di solito era quello che non sapeva “secondo lui” ballare, oppure quello più impacciato nel rapporto interpersonale con le ragazze.
La vèecia aveva alla fine anche un suo piccolo tornaconto, con la soddisfazione di pretendere e ottenere un vaalser. Molte volte spettava al nostro Erminio, che ero uno dei pochi che un pochino si sapeva destreggiare, condurla nei giri dell’arioso volteggiare.
Sono ricordi questi, per chi li ha vissuti, che hanno il dolce sapore dei momenti più belli della propria giovinezza.
Erminio ricorda anche che durante il suo servizio militare nel 1963-64 a Palermo, quando era in libera uscita a spasso ai Giardini Inglesi, vedeva le coppie di morosi passeggiare.
Loro davanti e dietro, scortati da una pletora di persone, forse tutta la famiglia di lei. Avendo osservato ripetutamente questo comportamento, arrivò alla conclusione che là le così dovevano funzionare così. Quindi, alla fine, era meglio accettare la funzione della nostra vèecia e di buon grado condurla in un bèel vaalser.
Sempre per rimanere in tema l’inverniiṡa (l’invernale) era una persona trista, di malaugurio. Faceva pensare a vetusti, stregoneschi personaggi femminili spruzzati di mùcido gelo.
La “brutta vèecia inverniiṡa – da la cuurta camiiṡa” (con la camicia corta e, precisa l’anonimo poeta, con il grembiale rattoppato: “grimbièel psèe”) è, nelle nostre ballate popolari, l’ava che regge il moccolo ai fidanzati.
Una figura non propriamente apprezzata dai giovani di qualche decennio fa.
Allora come oggi c’erano ragazze più belle e con molte richieste nel carnet, e meno belle (o meno simpatiche) che facevano fatica a trovare un compagno per le danze: di una ragazza che “faceva tappezzeria” e non ballava mai si diceva che la lighèeva i malgarèin (legava rametti di saggina, cioè fabbricava scope o faceva fascine).
Quando si discuteva con una ragazza nubile che non era ancora riuscita a trovare marito, la si poteva apostrofare con questa frase tagliente: Mò tèeṡ tè, te nn èe catèe gnaanch un caan ch al t pissa ind la stanèela! Ma taci tu che non hai trovato neanche un cane di pisci sulla veste
Dunque… èe t lighèe i malgarèein ? (hai legato dei rametti?) era una frase scherzosa per prendere in giro le amiche che quella sera, in balera, non avevano ballato perché nessun ragazzo le aveva invitate ed erano rimaste sempre sedute al loro posto.
Si sentiva dire negli anni ’40-50 quando era ancora abitudine farsi in casa le scope di saggina assemblando i vari rametti a mano. Tale lavoro manuale lo si faceva, ovviamente, stando ferme sedute sulla sedia.
C’è anche da dire che quelli erano tempi di transizione tra costumi più antichi e costumi più moderni, in particolare dagli anni ’30/’40 in poi, e quindi c’era già qualche coppia che si metteva insieme senza consenso ufficiale della famiglia e uscivano soli. Succedeva che una sorella più giovane godesse di questi nuovi privilegi, suscitando le ire di una sua sorella maggiore e già sposata. Quest’ultima, riferendosi alla più giovane, protestava: Ma chi ée la lè lée? La più bèela? Ch la va fóora sèinsa vèecia? (Ma chi è lei lì? la più bella? Che esce senza vecchia?).
A Carpi la figura dla vèecia ha resistito fino agli anni ’60, praticamente fino alla chiusura del noto locale da ballo L’Arlecchino, in Piazza, … poi è arrivato il ’68.
Quando a metà anni ’60 l’Arlecchino cessò l’attività, le coppie carpigiane si spostarono, vèecia compresa al seguito, al Trocadero di Rovereto (oggi COOP) o a Concordia. Per incentivare l’affluenza da Carpi alle 20,30 partiva un bus gratis; il ritorno era previsto in modo tassativo a mezzanotte e un quarto … chi gh éera … gh éera.
Per indagare circa lo stato sentimentale di una signorina, le si poteva chiedere, in occasione di una festa o di un ballo: “Ii t da pèr tè o gh èe t un simpaategh?” Sei da sola o coltivi nel tuo cuore una simpatia che intendi coltivare ?
Naturalmente i giovani erano più ṡgalvìi (svelti, svegli) dei rispettivi parenti, e il modo di vedersi in segreto si trovava spesso. Ma lei spesso era una brava ragazza, timorata di Dio e non cedeva mai fino al matrimonio. L’unica speranza per lui di avere qualcosa di più, oltre ai bacini, era quando le regalava ufficialmente l’anello di fidanzamento. Un atto solenne da cui il famoso ed esplicito proverbio: siira d anèel, siira d uṡèel (serata d’anello, serata d’uccello), che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
Per la frequentazione dell’amata da parte del fidanzato erano previste le cosiddette siiri da muróoṡ (sera da moroso), cioè le sere pari della settimana: martedì, giovedì e sabato.
Il fidanzato si recava di solito nell’abitazione della ragazza e i due cercavano di guadagnare quanta più intimità possibile; lontani dagli occhiuti parenti.
Succedeva anche che un ragazzo soffrisse del fatto di non avere la fidanzata o di non averla più; così negli anni ’50 e ’60, per darsi una dignità, le sere da moroso passava un attimo al bar dagli amici e poi spariva da solo in giro per la campagna, salutando con un bugiardissimo: “Ciào! A vaagh a muróoṡ! “
Gli amici, malevoli, dicevano allora di lui, prendendolo in giro: Al va a muróoṡ da la piòopa (Va a morosa dalla pioppa … cioè da un albero di campagna, ma anche un cognome femminilizzato – Pioppi – così come si usa dalle nostre parti).
E’ curioso notare come oggi giorno il fatto delle sere pari e dispari sia rimasto, con scopo totalmente inverso, con il rito della sera dispari del venerdì, dove maschi e femmine, rigorosamente separati, escono in numerose compagnie di amici o amiche per cene, balli, cinema, ecc…
In questo caso sembra funzionare una specie di anti promiscuità, dove gli appartenenti a un sesso, se ne vogliono stare un po’ per conto loro … pèr tirèer fièe (per tirare fiato) dal rapporto di coppia.
Una ragazza che cedeva al sesso, perdendo la verginità, sicura di un futuro matrimonio, nel caso venisse lasciata .. l’éera ruvinèeda (rovinata, disonorata).
C’era però ugualmente qualche lamentela e il moroso si sfogava con gli amici: Mò che bèel tàai! La m al prumètt, mò la n m al dà màai! – Ma che bella fessura! Me la promette, ma non me la dà mai!
Se una ragazza era lasciata dal fidanzato, anche se intatta, di lei si diceva che l’à ciapèe la brèina (ha preso la brina, cioè come qualche prodotto della campagna, che subendo tale affronto meteorologico, non appare più di bell’aspetto). Se invece era lei che lasciava lui, la ragazza era destinata ad andèer in ciàacra (ad andare in chiacchiera), cioè diventava oggetto di pettegolezzi e malignità, perché ritenuta poco seria. Detto questo, c’è anche da precisare che tanti matrimoni, nonostante le precauzioni famiglia seguirono il percorso inverso, e cioè l’anello arrivò solo a causa del fattaccio (e della conseguente gravidanza) e non viceversa. Si narra di una ragazza che nei pressi di San Francesco, all’inizio del ‘900, restasse incinta: lei dietro l’inferriata a pian terreno e lui in bilico in piedi sulla canna e la sella della bicicletta appoggiata al muro.
Nel caso che lui non abbia però intenzione di convolare a giuste nozze, il furbacchione potrà difendersi dalle pressioni con questa battuta: A te spuṡarò tra avrìil e màai; dove màai sta per “maggio”, ma anche per “mai”.
Il più grande poeta carpigiano Mario Stermieri (1886-1910), ci regala questa viva pennellata all’interno di una sua poesia del 1909 “L imberièegh”:
«Quàand i iin zóovni, stèll serpèinti, Quando sono giovani, ‘ste serpente,
pèr spuṡèeres i iin furèinti; per sposarsi son furenti;
dòop sée méeṡ èd matrimòoni, ma dopo soli sei mesi di matrimonio,
i me dvèinten taant demòoni!». si trasformano in tanti demoni.
Nell’incisiva e splendida quartina, il poeta condanna magistralmente il furore delle carpigiane per arrivare a ogni costo al matrimonio. Però, non appena raggiunto lo scopo dell’agognato sposalizio, si affrettano a mettere in atto l’antica, biblica unione di intima sostanza col diavolo, per tiranneggiare capricciosamente il consorte.
Quando finalmente a ṡ va a nòos (si va a nozze), i muróoṡ diventano spóoṡ (sposi) e così marì (marito) e muiéera (moglie) iniziano la vita matrimoniale: da soli, o, specialmente nelle famiglie contadine, si andava nella famiglia di lui.
La cerimonia delle nozze poteva essere gestita da una singolare figura: la flippa Questo importante ruolo si può tradurre in italiano in “pronuba”, cioè colei che presiede il complesso delle ritualità e cerimonie del matrimonio: suo era il compito di sistemare parenti e ospiti in chiesa ed eventualmente per il trattamento successivo e la disposizione della foto d’assieme. Poteva essere un zia della nubenda, oppure un’altra parente o amica di famiglia, autorevole, con grande esperienza di vita e conoscenza di persone. Il giorno del matrimonio poteva recava alla sposa un dono da parte dello sposo e assisteva la nubenda nella vestizione per la cerimonia.
Franco Bizzoccoli ricorda che praticamente l’ultima donna a Carpi a ricoprire queste funzioni fu sua madre, l’indimenticata Francesca Pivetti. Alla richiesta del figlio per un impegno domenicale, rispose: “NO! Dmènndga matèina a n pòos mià gniir, perché biṡòggna ch a vaaga a fèer la flippa a un matrimòoni!!” (NO! Domenica mattina non posso, perché devo andare a svolgere funzioni organizzative del matrimonio di uno zio della Giliola Pivetti).
Per maggior approfondimento sul tema ecco comunque la definizione dal bolognese:
“FLEPP, n. m. FLEPPA, n. f. Pronubo/a. Paraninfo/a. Dicesi tanto di chi promuove il matrimonio, quanto di chi presiede, anche percependo modesto compenso, alla ecclesiastica celebrazione di esso. “
Di più: a Boccassuolo, in provincia di Modena, vige ancora la tradizione della torta della Flippa: la Flippa, una sorella o una parente prossima della sposa, era anticamente la responsabile della perfetta riuscita della festa. Era lei che vigilava sulla cucina, sulla vestizione della sposa, sulla scelta delle dame d’onore, ma soprattutto curava i dolci: la torta della Flippa doveva essere la più bella, la più buona, e veniva servita alla fine del banchetto serale di solito a casa dello sposo.
Talora poi poteva anche esistere un apposito “comitato” di presadóor (prezzatori), formato anche questo da parenti o amici di grande fiducia, col compito di valutare l’effettivo valore dei regali offerti agli sposi.
Pulìir la spóoṡa: significa letteralmente adornare (da “polire”) la fanciulla che va a nozze. Questo pulimèint spettava al padre della ragazza e consisteva essenzialmente nella dotazione di una catenina da collo e di una vera d’oro, nonché di un ferma-anello. Se c’era una gioia in più, doveva trattarsi del pezzo più prezioso, un diamante, una gemma oppure un crocifisso appartenenti al “tesoro” di famiglia: il cosiddetto òor dla scaatla, perché custodito a lungo e gelosamente per generazioni.
Il matrimonio era anche una occasione per un vestito nuovo per lo sposo, forse l’unico nella vita, il cosiddetto vistìi spuṡadóor, che dal giorno delle nozze in poi avrebbe accompagnato il proprietario in tutte le feste e occasioni importanti e non di rado anche nella tomba; tutto ciò anche grazie a un arte sartoriale, certo non di eccelso livello, ma di sicuro lungimirante, che prevedeva ampi margini di tessuto sotto le cuciture per successivi allargamenti, allungamenti e arvultaduuri, oppure tratti di stoffa venivano conservati in un apposito cassetto per cuṡìir cun la guccia e al fiil … artòpp o péesi ind i gòmmet o ṡnooc’ ṡliṡìi (per cucire con l’ago e filo rattoppi, o pezze su gomiti e ginocchia lisi).
Durante il pranzo le acclamazioni e i brindisi non mancavano di certo, anche un po’ pesanti:
La viida la dà l’ùa, al furmèint e la spiiga …
viiva la spóoṡa e la só fiiga!!
Si tratta di un garbato motteggio in rima baciata, durante un pranzo di nozze, onde augurare fertilità e tanta prole.
Oppure c’era chi urlava: Viiva la tvàaia! Viiva i tvaióo! Viiva la spóoṡa sòtt ai linsóo!
Viva la tovaglia! Viva i tovaglioli! Viva la sposa sotto le lenzuola!
Anche: Viiva la spòoṡa e al sò tàai! (Viva la sposa e il suo taglio).
Velenoso e certamente meno gioioso era invece: “Viiva i spóoṡ! e … al più caiòun l è quèll ch a la tóoṡ !” Viva gli sposi! … e quel coglione che l’ha presa come moglie!
Quali erano i compiti e le valutazioni su una moglie?
Eccoli ad esempio enunciati in questa breve strofetta:
La brèeva dunlèina la fa al lèet a la matèina,
la dònna acsè acsè la fa al lèet a meṡdè,
la dònna un pòo vaaca la fa al lèet quàand la s ṡaaca.
Il marito, quando parlava della moglie, usava normalmente l’espressione “cla dònna” e la moglie viceversa “cl òmm”. Oggi tali modi di dire sono però in completo disuso.
Spesso solo in occasione del matrimonio, si incontravano gli suoceri, spesso chiamati, tra l’affettuoso e il dispregiativo, i nòon (nonni), oppure semplicemente i vèec’. A loro volta i coniugi dei rispettivi figli diventeranno ṡènneèr (genero) e nóora (nuora), mentre i nuovi arrivati al mondo si chiameranno rispettivamente fióo (figli) e anvóo (nipoti). Nelle grandi famiglie patriarcali poteva spesso anche capitare di vivere con i cugnèe (cognati), personaggi mitici e leggendari nel carpigiano, come fomentatori di liti famigliari, specialmente fra le cognate.
Per indicare una dieta energetica e prontamente disponibile, atta a recuperare le energie prodigate senza risparmio nella fatiche amorose dei novelli sposi, si usava dire: paan e nóoṡ, un magnèer da spóoṡ (pane e noci, un mangiare da sposi).Quando una moglie prendeva pieno possesso delle sue prerogative e funzioni assumeva, soprattutto in campagna, la qualità e le prerogative di “reṡdóora” , cioè di reggitrice del focolare familiare, quindi di massaia – governante – cuoca che amministrava con oculatezza e sapienza le risorse alimentari della casa. In questo ambito di azioni, anche il marito più autoritario o autorevole era praticamente escluso, se non al momento di fornire .. la munéeda … necessaria per i bisogni della famiglia.
Al di sopra di lei a volte poteva esserci solo la “nòona” (nonna), che era stata a sua volta la precedente reṡdóora, finchè le forze fisiche glielo avevano consentito; era chiamata anche la “dònna di lumm”, cioè la donna che preparava i lumi ad olio per la notte e teneva acceso il fuoco del camino.
La reṡdóora nella famiglia patriarcale erano indipendente e vigorosa; comandava su tutte le donne di casa che dovevano accudire alle pulizie, al bucato, alla pianificazione casalinga e all’allevamento degli animali da cortile, i cui proventi erano in genere a disposizione delle donne.
Durante l’inverno le donne filavano, cucivano e provvedevano ai corredi da sposa, mentre gli uomini costruivano e restauravano attrezzi agricoli, scale, seggiole, ecc … La famiglia patriarcale rurale era dunque organizzata come un’impresa produttiva, gestita con rigide regole. Anche i rapporti umani tra i componenti della famiglia, spesso formata da diversi nuclei costituiti dai figli, dalle mogli e dai loro figli, in condizioni di ristrettezza economica e disagio umano e sociale, erano gestiti con mano ferma ed autoritaria dall’uomo capofamiglia e dalla reṡdóora; a loro era riservato l’arduo compito di governare queste difficili convivenze.
In questo complicato intreccio di relazione potevano esserci facilmente incomprensioni fra suocera e nuora; da queste situazioni deriva il famoso detto pronunciato dalla suocera: “A diggh tè fióola, perchè t intènnd tè nóora”. Ovvero diplomaticamente si rimprovera la figlia, che è cosa di normale abitudine, perchè la nuora, di fresco arrivo, capisca una certa cosa, senza prenderla direttamente di petto, evitando scontri frontali
Talora succedeva che il marito fosse un buono a nulla e un ubriacone, si facesse mantenere e usasse violenze sulla povera moglie. La sventurata malediceva l’incontro e le nozze e si augurava una nuova vita:
S a psiss turnèer a naaser, Se potessi tornare a nascere,
a n vrèvv più tóor marì, non vorrei più prendere marito,
a vaagh a la limòoṡna, vado all’elemosina
e a maagn incòosa mè! e mangio tutto io!
Non era difficile che nel matrimonio ci si volesse prendere qualche distrazione. Di un coniuge che tradisce l’altro si dice che a l va pèr da travèers (va di traverso): il marito al mètt su la praatica (mette su la pratica, cioè si fa l’amante), mentre la moglie la mètt su al praatich (mette su il pratico, cioè si fa l’amante). I termini pratico e pratica derivano dall’uso antico del verbo praticare nel senso di frequentare sessualmente qualcuno. Se l’unione poi va irrimediabilmente male si diventa divìiṡ (divisi), oppure separèe (separati). Negli ultimi decenni è entrata a pieno titolo anche la parola divorsièe (divorziati). A separazione o divorzio avvenuti gli ex coniugi rimarranno, per sempre e anche se dovessero risposarsi con la qualifica, invero un po’ infamante, di melmaridèe o melmaridèeda.
Le cose non vanno dunque sempre bene e si può dire che … Al matrimòoni al cumiincia ind al nòmm èd Dio e al finìss in quèll dal dièevel (comincia nel nome di Dio e finisce con quello del diavolo).
Nel caso di scomparsa di un coniuge, avremo un vèddev e oggi molto più facilmente, vista la maggiore sopravvivenza delle donne, ’na vèddva (una vedova). Un tempo però, è bene sottolineare, era più frequente il caso opposto, per l’alto rischio di mortalità femminile legata ai parti e alle numerose gravidanze).
Una vedova inconsolabile che trova un uomo da frequentare, senza però troppo impegnarsi in un legame stabile, perché la n à avùu asèe dal primm marì (ne ha avuto abbastanza della pesantezza del primo marito), la catarà al mècco (troverà il mecco che è l’amante clandestino o quanto meno con poca voglia di apparire e forse propenso a sfruttare la situazione anche economicamente).
E’ molto curioso ricordare che quando un muratore predisponeva un pavimento con una leggera inclinazione per far scorrere l’acqua, perché non stagnasse, definiva la qualità della opera “in pisèer d vèddva”, in quanto si riteneva che non adoperandola (in teoria) quella della vedova aveva un getto più forte. Non a caso un’inclinazione di un manufatto, nel parlare fra muratori, si definisce “in spiss”.
Ringrazio Anna Maria Ori, Graziano Malagoli, Carlo Alberto Parmeggiani, il dr Carlo Contini, Jolanda Battini, Luisa Pivetti, Graziano Malagoli, Giliola Pivetti, Luciana Nora, Franca Camurri, Anna Bulgarelli, Giuseppina Bertolazzi, Donato Marciello, nonché il Gruppo di Facebook “Chi parla dialetto carpsan” e il rughlètt di affezionati del bar Tazza d’Oro alle 7 del mattino per i preziosi suggerimenti, contributi e lavoro di ricerca.
A cura di Mauro D’orazi, da un’idea iniziale del 2010 di Gianluca Vecchi e grafia del dialetto a cura di Graziano Malagoli
Esperto in Dialetto Carpigiano